Scritti giovanili.
Ci avevo questa passione per Jane. Lei passava ogni mattina sotto la finestra del mio ufficio, camminava di fretta e si faceva tutta Edwin Street, per andare chissà dove. Si metteva sempre bei vestiti, gonne di velluto e maglie nere e giacche di pelle; e poi ci aveva queste calze, dio se mi sarei fatto licenziare per vedere come continuavano sotto gli stivali.
Ma proprio non potevo, dovevo versar sterline per mantenere il mio buco, il mio giaciglio, la mia alcova: avevo sempre sognato di ritagliarmi un piccolo spazio in questa città, così viva e sempre disposta a suggerire qualcosa di degno da fare. Erano una manciata di metri quadri perennemente in ombra, il cui unico lusso era quello di dare su un piccolo parco, adorno di panchine ed alberi, spogli in quel periodo; vi erano un letto, tasti neri e bianchi, monitor, calcolatori, fogli in quantità, dischi, vestiti, e ogni tanto crini di donna appartenente a qualche sventurata la quale, non si sa se in preda a compassione o follia, mi riteneva appena migliore della solitudine come compagno per attendere l’alba.
Dopo studi scientifici terminati in ritardo e senza particolare brillantezza, che mai avevano saputo entusiasmarmi o rendermi fiero del mio penare, decisi che se proprio non potevo più costruirmi una fulgida esistenza dopo la morte, dimostrando qualcosa di importante, quantomeno volevo passare una vita bella il più possibile. E per bella non intendo costituita di puro edonismo, vacuo e soverchiante, ma bella in sé, densa di poesia e numeri e amore. E la poesia non sono solo i versi, le rime, le stanze, la retorica, bensì tutto quello che le persone fanno camminando a qualche millimetro da terra, con il cuore gonfio di passione, e sensazione di quando erano bambini e si sentivano i re del mondo per qualche semplice conquista che di lì a poco qualche adulto morto dentro avrebbe annichilito con ligio distacco; lo stesso con cui mi avevano presentato i numeri, e per il quale li avevo sempre ammirati con invidia da dietro un vetro.
Riconoscevo sempre la mia mente come fortemente logica e razionale, e totalmente a suo agio quindi nel giardino della matematica, ma purtroppo l’idillio non era parso mai sbocciare del tutto: propositi di volontà sembravano anticipare l’inizio di grandi periodi di intensa applicazione, che decadevano miseri però alla prima distrazione concreta, fosse essa il tepore di primavera, del luppolo maturo, o un complice sorriso.
Abbandonata quindi temporaneamente l’idea di proseguire i miei studi, mi reinventai programmatore e mi diressi in terra d’Albione per non aver pensiero del mio fallimento esistenziale, concentrando invece i miei sforzi per sentirmi il più vivo possibile: qui erano state scritte pagine di storia e di musica che sempre avevano goduto della mia più profonda ammirazione, dal genio di Barrett, Waters e Gilmour agli echi decadenti di Curtis, Smith e Burgess, dai sogni stratificati di My Bloody Valentine e Slowdive all’energia concisa di Pulp, Blur, Suede o dei fratelli Gallagher.
Ed ogni volta che giravo per quei luoghi, mi lasciavo rapire dall’ascolto di questo o quell’altro disco, che tanto aveva segnato la mia personalità e la mia esistenza; sì, perché esistono davvero musiche che ti cambiano e stravolgono, o meglio esistono persone la cui anima è tale da lasciarsi permeare pienamente dall’arte al punto di mutare la propria essenza nell’atto di accogliere e far proprio il pensiero di un altro individuo, artista o meno che sia. La mia occupazione mal si adattava apparentemente ad una tale visione del trascorrere i propri giorni, ma era un compromesso che accettavo volentieri per soggiornare in un ambiente così stimolante.
Ci avevo proprio una grande passione per tutta quella musica, grande e bella quasi come quella per Jane. Si faceva tutta Edwin Street, a passi rapidi e con la mente ed il cuore ancora più veloci, glielo leggevi negli occhi, le rare volte in cui riuscivi a incrociarli: erano di un verde chiaro, rari e preziosi e grandi, e le erano rimasti di bambina, a cospetto di un corpo già maturo a dispetto dell’età assai giovane. Il viso diafano era tempestato di graziose lentiggini, come fosse una galassia ma di cioccolata al latte, e potevi contarle senza mai enumerarle tutte, ma io di certo non potevo, perché avevo giusto quella manciata di secondi al giorno in cui il caso si degnava di porla sotto la mia vista. Che io poi neanche sapevo come si chiamasse, ma avevo deciso che era Jane. La mia fottuta e unica Jane.
La primavera avanzava timida, ma si aveva già piacere nel godere di quell’accenno di tepore negli ampi giardini del cuore della città, vasti e puliti e placidi, che si vedevano solcati da esistenze diverse ogni giorno: chi li attraversasse di fretta per tornare a Kengsinton, chi li percorresse in lungo e in largo in bicicletta, chi portasse i propri bambini a vedere i grigi scoiattoli, chi ancora cercasse il bello della natura all’interno della metropoli. Avevo imparato ad amare quei luoghi, così diversi e complementari rispetto a quelli analoghi della mia terra natia, pur splendidi anch’essi nel loro estro architettonico e botanico. Sì, perché di certo qui non ci si imbatte in labirinti di siepi e fontane imponenti, almeno non nei parchi: il manto verde è un biliardo, dio stesso sembra regolare la lunghezza di ciascun filo d’erba ogni notte, e gli occhi ne hanno solo di che riposare.
Gli edifici a ridosso di tali zone erano magnifici e signorili, e si insinuavano nel contesto naturale senza violenza alcuna, a differenza di quanto la gente ivi residente non facessero con la mia anima: gente forse anche buona e gentile, ma totalmente asservita al quieto vivere, alla routine giornaliera, all’ordine costituito. Persone senza estro né poesia, tanto fieri di accompagnare la prole in scuole ricche quanto infastiditi dalla necessità di dover andarli a riprendere all’ora di pranzo; individui che hanno rinunciato alla propria essenza di fanciulli per entrare in un mondo alla stesura delle regole del quale non erano stati invitati, e che ora le accettano e le venerano quali fossero dogmi incrollabili.
Io no, proprio non ci avevo passione per questa gente.