La consuetudine dei numeri primi.
Sono solito diffidare dei libri che si trovano in Autogrill, specie se in qualche modo affini al mocciapensiero, ed in certa misura avrei fatto bene a glissare sulla mia ultima lettura, "La solitudine dei numeri primi", primo romanzo del dottorando in fisica Paolo Giordano ed edito da Mondadori nel 2008.
Usualmente avrei destinato ad un testo simile non più di un paio di commenti al vetriolo™ sparsi in qualche mio post saccente, ma sono stato talmente dibattuto che spenderò la prossima mezz'ora a render conto del mio pensiero a riguardo. Agli inquirenti.
La trama è nota ai più perché il libro ha vinto il premio Strega, venduto un milione [!] di copie, e ne è stato tratto un film di cui non conosco l'accoglienza del pubblico, lacuna questa che non penso andrò a colmare perché sostanzialmente non me ne frega un cazzo; protagonisti sono Alice e Mattia, due ragazzi le cui esistenze sono irreversibilmente segnate da traumi infantili, cui succederanno talmente tante cose che al confronto la vita di Lou Reed è stata soporifera. I due si incontreranno ma destino vorrà che le loro esistenze collimeranno sempre in maniera fugace e discontinua, principalmente perché lui repelle la vulva preferendovi l'algebra - che è una condizione alla quale personalmente anelo, non lo nascondo.
L'idea di base è relativamente buona, l'inizio della realizzazione anche in certa misura, specie ricordando che è la prima prova letteraria del giovane autore, che è un fisico e non uno scrittore di professione; purtroppo egli si fa prendere la mano e al genio autolesionista con la sindrome di Asperger e la zoppa anoressica si aggiungono l'omosessuale represso, i genitori arcigni e mai comprensivi, la bulletta zoccola del liceo. Sono certo ci fossero anche un paio di negri seviziati, ma di sicuro sono nella manciata di capoversi che ho saltato.
Troppa carne al fuoco, se ne accorge anche l'autore stesso che a metà racconto sfancula tutto e riprende la narrazione dopo un paio di lustri, depennando un po' di tutto quell'orrore che francamente ho reputato pesante e spesso dozzinale, e continuando con episodi abbastanza prevedibili o già visti, con qualche idillio valido a corredo ma senza mai abbandonare la nube di dannazione che grava sui due personaggi, la quale sparirebbe se i due decidessero finalmente di chiavare [ooooh no]. Il libro è quindi un centone di luoghi comuni adolescenziali, sfighe croniche, personaggi che non evolvono quasi per nulla, con un finale sbilenco ed acerbo a chiudere il tutto: argomenti sufficienti per risparmiare 18 [!!!] euro e spenderli in cose costruttive come Dostoevskij, la tequila o la lap-dance.
Vengo ora però al vero motivo per cui ho scritto queste deprecabili righe: dopo il rituale nichilista di demolizione di qualsiasi prodotto artistico non partorito da me, cioè pressoché tutti, ho ritenuto interessante riportare la mia esperienza diretta con questa lettura. Ho trovato il volume su uno scaffale a casa di amici, e complici sia un momento libero sia l'eco del tamtam scatenato intorno a questa pubblicazione tempo addietro, ho benpensato di sfogliarne le prime pagine. Con l'avanzare della lettura, mettevo sempre di più a fuoco nella mia mente la frase "TanvyA yatsuratAntatAntanayanaM", che in sanscrito vuol dire "questo libro è una merda". Ma la sintassi concisa e diretta è come un disco indie-pop, anche se fa schifo non ti costa nulla lasciarlo su: mi sono ritrovato così a terminarlo sotto le coperte al buio, facendomi luce con il cellulare e perdendo almeno un paio di diottrie. I motivi di tale ipnosi letteraria sono due: il primo sono le immagini ricreate, onestamente spesso buone e di impatto devo ammettere, e l'espediente di far continuamente leva sull'inconscio del lettore, che almeno in me ha causato tensione emotiva per buona parte del racconto; di certo riconosco in alcuni dei personaggi molti aspetti di me, ed ho vissuto in prima persona alcuni episodi descritti, ergo il gioco ha funzionato ed ora sono cui a render testimonianza di un'esperienza che sarei disonesto a non definire intensa.
Tengo sempre bene a mente le parole di Pirandello - "la vita o si vive o si scrive, io non l'ho mai vissuta, se non scrivendola" - e visto che per me la scrittura è evasione e ricerca quasi edonistica di vivere episodi e sensazione, mi piace immaginare che dietro quel racconto a tratti scontato e banale che ha saputo struggere adolescenti tra un tweet e l'altro ci sia un ragazzo che abbia voluto mettere a nudo intimi atolli del proprio animo, senza voler nulla in cambio, e per questo spassionatamente lo ringrazio.
La prossima però volta scrivi un po' meglio, e falli chiavare.