Buona giornata, Sofia.
Non eravamo stati assieme a lungo, ma portavo ancora vivi i segni del nostro rapporto. Non incarnava neppure i miei canoni di bellezza, né tantomeno sposava i miei ideali né i miei percorsi mentali: di estrazione alto borghese, il mondo che la circondava non poteva di certo stimolarla a sufficienza al punto da far emergere il suo latente interesse verso ciò che a me preme conoscere; tale inerzia negativa fu di certo un catalizzatore verso la nostra rottura, che la vide spesso sprezzante nei confronti di qualcosa che in fondo sapeva di volere, ma che di certo il suo ambiente rifiutava categoricamente.
Lei, figlia d’arte e già designata a divenire responsabile del Grande Progetto di Unificazione, cosa avrebbe potuto avere a che fare con un mediocre studente che trascorreva le proprie svogliate mattine sui banchi della Scuola dei Numeri? Lei, discendente di chi aveva realizzato la Cattedrale delle Menti, fulcro religioso e sociale di tutta la città, e prossima al raggiungimento del massimo grado nel campo delle arti, abbassarsi ai livelli di un cabalista? Mi raccontava di come suo padre, il signor Moneistein, le ponesse in pessima luce l’operato della mia categoria: le ripeteva che sì, qualche conto era necessario, ma che i palazzi si reggevano sull’equilibrio delle menti che vi abitavano, e più tali menti erano in mansueta armonia, maggiore era la stabilità dell’edificio stesso. Sosteneva la nostra negazione dell’imprevedibilità dell’anima, se non della sua stessa esistenza, mentre elogiava gli architetti della psiche per come riuscivano a forgiare strutture inattaccabili nel loro eterno mutare. Non l’avevo mai conosciuto, data la fugacità dei nostri incontri, dei quali troppo spesso era ignaro chiunque all’infuori di noi.
All’infuori di pochi intimi, l’unico ad averne avuto intuizione fu il guardiano della Scuola: persona schiva ma rassicurante, preferiva l’eloquenza dello sguardo alla vacuità della parola. I miei rientri talvolta oltre l’orario ultimo di ingresso, sempre tollerati senza addurre richiesta di informazioni a riguardo, diedero conferma alle sue teorie un giorno in cui mi indicò una figura minuta che mi chiamava mentre rientravo anche quella volta ben oltre il tramonto: avevo dimenticato dei libri, e Sofia era corsa a restituirmeli. Le chiesi se fosse pazza a venire fin qui senza neppure chiudersi nel cappuccio; ma all’epoca lei non si curava del pensiero altrui, non vi era pregiudizio nel suo animo giovane.
Rientrando, risposi al sorriso dell’anziano signore con sollevata espressione affermativa: talvolta era sufficiente anche solo rendere qualcun altro partecipe delle proprie gioie, per apprezzarle in misura maggiore. Lei terminò poi l’apprendistato, ed entrò senza difficoltà nell’Accademia: se prima la mia frequentazione della Scuola destava in lei ammirazione quasi reverenziale, non appena si lasciò permeare dall’altezzosa aura del nuovo istituto, il fascino emanato dai numeri iniziò a farsi debole; lei per prima si interessava dei miei testi, di cosa cercassi, e si lasciava ammaliare da racconti che adornavo di particolari inesistenti pur di renderli più avvincenti e distanti dall’arido rigore scientifico; mi chiedeva della magia delle cifre, di chi le avesse inventate, se il mondo fosse regolato da regole magiche come la mia disciplina, ed io non potevo che essere felice di vedere esaudito il mio desiderio di considerazione, specie se soddisfatto da viso diafano, da sguardo rapito, da limpida mente.
Poi ad un tratto non fu più così, e fu lei stessa a porre fine ai miei angoscianti timori circa l’indebolimento di quanto aveva saputo darmi linfa fino ad allora. Disse dell’Accademia, della famiglia, di cose che sapevo essere incombenti dal primo momento in cui varcò il portone dell’Accademia. Ero per dire qualcosa, ma sapevo che non sarebbe stata la mia Sofia ad ascoltarmi, ma un’altra: se quella vera o una forma distorta non avrei potuto saperlo, del resto chi sarei stato per valutare l’essenza di una persona in funzione della mia convenienza? Presi atto della lacerante novità, e proseguii il mio cammino di studi, con esiti analoghi: fallii l’accesso alle Stanze dei Numeri Superiori, per quanto fossi uno dei principali candidati al superamento della prova, al punto che questo destò scalpore all’interno della piccola comunità; l’evento fu presto dimenticato, ed il prolifico intuito di Dasco era già ricordo.
–Dasco, ti han già fatto contare fino a mille i tuoi acuti mentori? Come mai in buona uscita da queste parti?
Inutile dire da chi provenisse lo scherno.
–Oh, la mente ha bisogno di essere alimentata al cospetto della magnificenza di certi edifici. Sentendosi poi troppo misera però, trova subito conforto alla vista di coloro che li occupano.
–Fai sempre uso di sarcasmo in quantità, noto con piacere: del resto non costa nulla, è facile abbondare di ciò che è a buon mercato!
–Potrei arguire che è privo di prezzo, ma non oso inficiare la sua felicità nel pensarla in tale maniera, signorina Moneistein! - risposi con zelante riverenza.
–Ho visto quando hai urtato Daphne prima, sei stato discretamente maldestro, ma non nego che mi hai strappato un sorriso. Certo un qualsiasi suo collega in un episodio simile si sarebbe scusato invitandola alla dispenseria dell’Accademia per una bevanda, ma sei scusato: non credo tu sappia neanche cosa sia - aggiunse ghignando.
Ero per rammentarle che purtroppo il destino mi impedì di poter visitare l’edificio accompagnato, ma ritenni saggio evitare ulteriore vetriolo da due soldi da parte sua, e la congedai fingendo un imminente impegno.
–Seriamente, questo palazzo emana grande energia, è il posto ideale per ritrovarne prima di tornare ad impegni di rilievo. Casualmente me ne attende uno a breve, è bene che mi accinga ad adempiervi, visto che difficilmente si scomoderà lui per raggiungermi.
–Ah, sicuro sia un lui e non una lei? - non seppe trattenersi.
–I numeri non hanno sesso, anzi sovente ti allontanano dal medesimo - provai ad alleggerire, fortunatamente con successo - passa una buona giornata.
Non so quale espressione rispose al mio sorriso di circostanza, perché mi voltai di scatto e continuai diritto verso la mia Scuola: raramente avevo avuto tanta voglia di farvi rientro.