Al parco.
Ero al parco davanti casa dei miei a suonare. Mi fa strano dire casa dei miei, perché non ci abitano più assieme da tanti anni, e perché al netto del documento di possesso, è anche casa mia. Anche se vivo anch'io altrove da tanti anni, quei due piani incastrati in quella schiera di palazzine di grigio cemento e mattoni gialli resterà sempre anche casa mia. Le cose più belle di quella casa sono tutte all'infuori di essa: il mare che si vede da ogni finestra, gli olivi in giardino, il sole che la bacia incurante della sua oggettiva bruttezza esteriore ed ignaro di quella interiore, forse ancora più grande.
Il sole era in vena d'amore anche in quella giornata d'inverno, stagione che a Roma quell'anno si era rivelata decisamente mite. Per i mesi precedenti ero stato costretto a casa dalle incessanti piogge che si erano abbattute su Berlino e la mia vitale necessità di suonare all'aria aperta, rimasta pesantemente insoddisfatta, mi aveva condotto quasi all'insania.
Presi posto su una delle poche panchine di quel parco oblungo, una striscia verde a separare brutte palazzine da un brutto tratto della via Appia. La via Appia è molto lunga, e dei pochi chilometri che ne ho percorso ricordo tratti assai più belli, dalla porzione marittima di Terracina all'inizio capitolino di San Giovanni. Ci sono begli alberi, cipressi, olivi, pini. Ci sono poi dei giochi per bambini e dei costrutti di legno e metallo utili a fare attività fisica. Tutto pare esser stato depositato lì la sera prima e non dispone di alcuna armonia.
Di armonia a disposizione ne aveva tanta il pezzo che stavo imparando in quei giorni. Something dei Beatles, a detta di qualcuno "la più bella canzone d'amore mai scritta, e non dice neppure ti amo una sola volta!". Per anni non mi sono filato i baronetti, li ritenevo superficiali e troppo sentiti. Quale presunzione in tale valutazione, quante primavere buttate, quante ragazze in più avrei conquistato suonando loro Blackbird o Julia o Eleanor Rigby o Michelle o I'm Looking Through You!
Da quando avevo capito che scrivere canzoni e poi suonarle era la mia vita avevo iniziato ad imparare da chi ne sapesse parecchio più di me, e mi era giunta voce che nel Merseyside si sapesse qualcosina in fatto di cantautorato. Non è un pezzo impossibile Something, ci sono un paio di passaggi più ostici ma ce la stavo facendo pian piano. Mentre lavoravo al ponte, un bambino in bici mi frenò innanzi.
– Che fai?
– Io? Suono. La chitarra suono.
– E perché ti sei fermato? Continua.
Perché mi ero fermato? Già, perché. Ripresi con un altro brano, spostai il capotasto più su. Mi chiede a cosa servisse quella pinza, gli fornì dimostrazione diretta pizzicando le corde prima e dopo l'applicazione. Avrà avuto sette o otto anni, portava un elmetto che noi alla sua età mai ci saremmo sognati di portare, pena lo scherno di tutti i bambini del paese. Gli porsi lo strumento e lo invitai a pizzicarne le corde. La luce che lo aveva acceso di curiosità pochi istanti prima lasciò presto il posto ad un'ombra di timore.
– Il nonno si arrabbia.
Il mio sguardo scandì le due estremità del parco. Al girare il capo, scorsi una sagoma procedere lenta verso di noi. Dissi al bimbo che il nonno era lontano e che poi gli avrei dato io il permesso, diamine era la mia chitarra. O meglio era di mio padre, ma non avrebbe fatto troppe storie credo.
– Il nonno si arrabbia.
Gli chiesi se gli piacesse la musica, per un attimo ritornò il sereno di prima.
– E fatti regalare una chitarra dalla mamma, no!
– La mamma si arrabbia. Non vuole che si senta la musica a casa.
Cristalli di ghiaccio finissimi si fecero largo nelle mie vene, per poi ingrossarsi e spaccarle tutte contemporaneamente. Giacevo supino nel parco in una pozza di sangue, chitarra alla mia destra, bimbo in bici alla mia sinistra, volto della madre a guardarci soddisfatta dall'alto.
– Neanche la mia vuole, per questo sono qui!
Ripensai a quando vent'anni prima era così anche per me, e a come le mie propensioni artistiche giovanili erano marcite una prima volta tra l'arsura dei berci materni e le crepe della mia allora inesistente autocoscienza.
– Di che squadra sei? - il bimbo percepì forse i nembi che oscurano il mio pensiero, si fece adulto e ruppe il ghiaccio. Si faceva ancora così quindi, parlando di pallone. Del Milan, sono del Milan. Disse che anche lui era del Milan, ma che era anche della Roma, della Juve, e prima che sciorinasse con zelo qualche ulteriore compagine minore lo interruppi rammentandogli la dovuta lealtà a una squadra sola.
Mi chiese di cambiargli la marcia alla bici prima che giungesse il nonno, perché altrimenti il nonno si sarebbe arrabbiato. Bisogna cambiare le marce quando si è in moto altrimenti si spacca il cambio, ebbi paura il nonno si arrabbiasse vedendomi partire. Per fortuna furono necessari solo pochi passi. Il bimbo montò e raggiunse il nonno per lasciarselo subito alle spalle viste le differenti velocità di passeggio. Seguì la gaia pedalata del bimbo pensando che avrei voluto regalargli un mio plettro. Avevo fatto altrettanto mesi primi alla Wasserturm, donandone uno ad un bambino mezzo scemo che si limitava a dar schiaffoni alle corde senza alcun senso musicale, per il mio immediato sconcerto.
Avevo indugiato nel ritirare lo strumento perché era accompagnato da due ragazze giovani e molto carine ed, ignaro di chi delle due fosse la madre, non sapevo a quale fare occhi da triglia mentre lasciavo al marmocchio licenza di violentare la mia Martin. Alla fine sganciai il plettro, a raccoglierlo fu la più carina che era anche la mamma dell'ominide. Avevo perso cinque minuti della mia vita a guardare due paia di occhi azzurri, mi piace vederla così.
Lo spazio antistante la mia panchina era diventato un raduno per cani e padroni di cani. Sarebbero potuti andare altrove, sarebbero. Non era mio diritto rivendicare il mio desiderio di isolamento, perché sarei stato tosto invitato a sloggiare. Il modo migliore è sempre quello di suonare qualcosa di spigoloso, di solito mi avvalgo dei passaggi più aggressivi degli Opeth. Funziona sempre, neanche i cani sopportano il tritono. Anche il sole mi aveva lasciato solo, sceso al di là del muro di cinta che separa il parco dalla via Appia. Era cambiato il cielo e con esso il mio umore.
Ripassò il bimbo, mi chiese cosa facessi ancora lì con la chitarra. Risposi che oramai iniziava a far fresco, e che di lì a poco sarei andato via.
– Dove abiti tu?
– Abito qui dietro. Cioè sono qui in vacanza, ma io abito in Germania.
I suoi occhi a palla mi rammentarono come la sua coscienza geografica di un bambino fosse meno sviluppata della mia. Vicino dove abita Babbo Natale, gli dissi, ecco. Lo smarrimento cedette alla sorpresa più candida e pura avessi mai visto sul volto di una persona. L'avrei adottato seduta stante quel bimbo, era ancora intonso e santo e certamente privo del peccato originale.
– E te lo conosci?
Mi venne tanto da sorridere, ero pronto ad inventare una bella storia, e a suonargli poi la canzone che Babbo Natale stesso mi aveva insegnato un giorno, quando l'avevo aiutato a riparare il suo vecchio computer. Non gliela raccontai mai quella storia sul nonno che lui sognava di avere, perché quello che aveva già l'aveva appena preso per un braccio e rimproverandolo di non dare fastidio ai grandi si era portato via lui, la bici, l'elmetto, e la sua ingenua ed infinita curiosità.
Una manciata di secondi ed erano già lontani.
Non riusciremo mai a sconfiggere la bruttezza del mondo.
Mai.