Anathema Live 5/11/2013 @ K17, Berlin
Se c'è un gruppo che più di ogni altro associo all'arrivo della mia stagione più cara, esso è rappresentato dagli Anathema: crepuscolari ma non deprimenti, a tratti veementi ma mai euforici, si sono sempre saputi rinnovare mutando la propria cifra in maniera sostanziale e pur sempre coerente.
Li vidi come spalla dei Porcupine Tree nel lontano 2007, potendone a malapena percepire la voce tanto era pessima l'acustica per la loro esibizione, poi anni dopo a Roma ancora in uno show bellissimo all'Alpheus, e le ultime due volte qui a Berlino.
Ieri mi è stato fatto dono di un'esperienza divina, di cui custodirò sempre gelosamente il ricordo. Io credo che il primissimo requisito che degli artisti devono possedere nel momento in cui affrontano il pubblico sia l'amore tout court: l'amore per la loro professione, l'amore per quanto hanno scritto e si accingono ad interpretare, l'amore per la platea, per come reagisce e prova piacere fisico e mentale mentre si lascia pervadere dallo spettacolo in atto.
Raramente ho visto delle persone imbracciare strumenti [e sì, ne ho viste parecchie credo] avvolte da un'aura così tangibile di sentimento puro. Al di là dei siparietti e dell'interazione scherzosa con noi della sala, Daniel e Vincent Cavanagh sono animali da palcoscenico che sanno riprendersi dagli inconvenienti della diretta, che sanno improvvisare nonché rendere il pubblico partecipe diretto della musica che stanno suonando.
Presentatisi in formazione ridotta, le due anime del gruppo erano accompagnate dalla bellissima ed imprescindibile voce di Lee Douglas; ora io non ricordo di preciso quando Daniel iniziò a smanettare con una loopstation nella sua carriera [probabilmente ai tempi dei tour con Anneke van Giersbergen], ma possa dio benedire quel momento. Possiamo così essere tutti partecipi del miracolo dell'esecuzione assieme a quello creativo, e godiamo di musica totalmente diversa dai dischi, più viva ed autentica.
I brani dell'ultimo disco (Weather Systems), a mio avviso troppo patinato ed "adulto" [in accezione ahimè negativa], ritrovano qui una dimensione nuova e degna e si mostrano finalmente genuini, per non parlare del repertorio classico: Daniel in due minuti scarsi tira su un magnifico arrangiamento per Deep, prima percuotendo la cassa della chitarra in modo da ottenere un loop percussivo, sovrapponendovi poi un paio di note basse ostinate e finalmente l'arpeggio che tanto amiamo. Vincent ci mette il resto, e ci guardiamo tutti increduli.
Torniamo all'album più recente senza troppi patemi, e sulla coda di Dreaming Light si insinua prima timida e poi decisa Flying, presto sostenuta da un battito di mani in tempo composto [sì, proprio come nel bridge di Trains di certi Porcospini]. Flying è una di quelle canzoni che vorresti davvero non finisse mai, con quegli echi andalusi nel finale, con quei cori così eterei ottenuti allontandosi ad uopo dal microfono, e che solo quando sei in primissima fila puoi percepire dal vivo.
Un buon compromesso per accettare l'inevitabile conclusione del brano è rappresentato dalla sequenza successiva: Shroud or False, Destiny, Lost Control, One Last Goodbye, da sentirsi male proprio.
Immancabile Are You There?, [come su Hindsight], interpretata dal solo Daniel che si concede un'altra licenza di esclusività con la cover Big Love dei Fletwood Mac, dedicata esplicitamente ad una sua compagna del passato che vive proprio qui a Berlino.
Torna Lee per chiudere con Parisienne Moonlight [tutta sua], e A Natural Disaster, quest'ultima pure decisa a non finire mai. Ma le cose belle, per essere veramente tali, devono avere un termine e rimanere istanti isolati di un'eternità mediocre, ed è così che i tre lasciano la ribalta e si guadagnano appluasi ininterrotti fino al loro rientro.
Sappiamo tutti che chiudono sempre con Fragile Dreams, e mai consuetudine è stata accolta in maniera più lieta: cantiamo a squarciagola il loro immortale commiato, il quale viene seguito a sorpresa da un inatteso invito a ballare; Daniel torna a picchiettare sostenuto sulla cassa del proprio strumento, segue con un'inconfondibile frase ritmica che tutti riconosciamo come Another Brick in the Wall pt. 2 e che accogliamo con piacere, anche io stesso che non gradisco particolarmente tale album di Gilmour e soci. Daniel ci tiene poi a ricordare che oltre a prendere a cazzotti chitarre e a schiacciare pedali è tuttora un chitarrista della madonna, e si esibisce in una coda finale da brividi.
Bravi Daniel, Vincent e Lee, che con due strumenti in croce e tre microfoni hanno tirato su un concerto da lacrime, suonando quasi meglio che in disco e regalando un vero idillio creativo per tutti i presenti. Mi faccio un cicchetto, incrocio Daniel nella sala, lo saluto e lo ringrazio per quanto mi ha dato negli ultimi anni e stasera specialmente.
A presto con il nuovo disco, mi raccomando dategli un po' di graffio però e tornate presto qui, la gente vi ama davvero tanto.