Ryuichi Sakamoto + Alva Noto Live 23/09/2012 @ Auditorium, Roma
Ryuichi è noto per aver scritto grandi colonne sonore, per aver vinto un oscar con Bertolucci, per aver recitato con Kitano e Bowie ma soprattutto per aver involontariamente scritto il tema più evocativo di tutta la tradizione musicale asiatica: non vi è essere umano che non volga il proprio pensiero a pagode e kimoni all’ascolto di Forbidden Colours / Merry Christmas Mr. Lawrence.
Alva è Noto di suo invece, quindi non avendo nulla da fare sin da quando era bambino ha iniziato a produrre glitch/ambient in quantità sesquipedali, adorna di visual art pertinente ed altrettanto minimale. Stanco di tanta fama mai sudata, un giorno decide che manca del Giappone nella sua arte, e chiede in giro chi sia “quello di Forbidden Colours”: telefona a casa Sakamoto, ma dormono tutti perché ci sono dieci ore di fuso tra Berlino e Tokyo. Alva mette la sveglia alle 4, riprova, e nasce subito Vrioon [2002], che sarà seguito da altri capitoli simili sino al più recente Summvs [2011]. Avido di sodalizi, Alva [al secolo Carsten Nicolai] si accasa successivamente con Blixa Bargeld, un tale che a causa del proprio nome difficilmente pronunciabile scelse di far parte di un gruppo dalla dizione più semplice, gli Einstürzende Neubauten.
Fuor di artificio narrativo, la collaborazione tra il pianista nipponico ed il teutonico puntillista ha tutta la sua ragion d’essere: il principe degli strumenti si spoglia dei suoi connotati tradizionali e trova connubio frugale con suoni programmatici nel trionfo dell’atonalità. Mi si perdoni l’ovvietà del paragone con il neoplasticismo di Mondrian, con le sue superfici dai contorni netti e dal campimento marziale, con la divisione del piano non più nascosta dietro direttrici intuibili ma celate, trasposte in ambito musicale come interventi ripetuti e staccati di rumore, inteso non nell’accezione comune di cacofonia bensì in quella tecnica di assenza di contenuto armonico predominante.
Qualcuno diceva che “parlare di musica è come ballare di architettura”, e questo paragrafo di nulla ne è prova concreta: passando finalmente alle impressioni che l’esibizione del duo ha suscitato; ammetto che l’aspettativa è finita per collimare totalmente a quanto proposto, complice anche la visione di alcuni video di live recenti ovviamente. Per fortuna SakaNoto scelgono la cornice più idonea per un evento del genere, con buona pace del pubblico davvero gremito ed inaspettamente educato e dotato di buon senso: avrò sfiga io, ma di rado mi capita a Roma di non dover essere confidente non direttamente interpellato della loquacità o della noia di spettatori circostanti mentre gente per cui ho speso del denaro sta suonando.
Appurato come l’Auditorium riesca ad avere influsso positivo sulla platea, SakaNoto salgono sul palco, ognuno con il proprio strumento di competenza, con alle spalle uno schermo orizzontale in rapporto di circa milleseicento-noni, pronto a fornire didascalia a quanto eseguito; la spettacolo inizia duro, con Noto che ribalta la sala con della dubstep tostissima - mi sveglio dall’incubo per fortuna, e rivivo l’esperienza consueta che ho con Insen [2005] elevata alla massima potenza: i pensieri si fermano, le sinapsi entrano in risonanza con i glitch di Noto, gli interventi di Sakamoto sono pillole volte a sedare l’anima dionisiaca. Non è ipnosi e non è coscienza, non è estati né fastidio: il termine più adatto credo sia sintonia. Il tempo smette di esistere fino al seguente cambio di proiezioni e al fragore degli applausi, poi torna ad essere un mero spettatore della medesima.
Applausi.
Cambio colore.
Sintonia.
Mani.
Cambio.
Sintonia.
Credo sia inutile riportare pedissequamente l’elenco dei brani, non è un concerto di musica popular, in cui la mancata esecuzione del proprio brano preferito può compromettere il giudizio dell’evento; altrettanto riduttivo è definirlo una semplice esperienza sinestetica, manco fosse un’installazione della biennale - stasera più che mai ho sperimentato quanto detto dall’acuto e John Cage circa l’importanza dell’ambiente dell’esecuzione, di quanto il rumore di fondo dia colore ed irripetibilità all’atto artistico: 4’33" tutto era fuorché una provocazione sterile. Il pensiero al compianto musicista mi è tornato quando Sakamoto ha iniziato a pizzicare e percuotere direttamente le corde del pianoforte, quasi fosse un koto, stravolgendone così totalmente il timbro.
Tornando al pensiero su Mondrian, così come tanti credono che riempire tele copiando i flaconi L’Oreal sia insultantemente semplice, così tanti penseranno che giustapporre quattro accordi vuoi pure ben suonati ai suoni di un pc difettoso sia un’operazione banale ed intellettualoide: prescindendo dalle affermate capacità artistiche dei singoli, argomento sufficiente a deporre le accuse di semplicismo a mio avviso, io reputo arte quanto durante l’esperienza della stessa attiri la mia attenzione, mi muti, volga il mio pensiero verso di sé anche successivamente. Ad esempio ora penso allo stato mentale che ho avuto in quell’ora abbondante, alle proiezioni, all’eleganza di Ryuichi quando esce e rientra, alla sapiente impassibilità di Carsten innanzi al suo laptop, a quelle quattro battute di Forbidden Colours che se la suonava tutta era pacchiano forse, ma sarebbe stato supendo lo stesso perché è un tema sempre bellissimo; penso che tutti i pianisti abbiano un gene di paraculaggine che trova prima o poi fenotipo pur effimero, stavolta secondo me davvero non biasimabile nella dolcissima By This River, qui priva della voce di Brian Eno e dell’arrangiamento consueto in favore del constributo di Noto.
Vedo ancora quei venti dischi colorati girare brillanti, ed accendersi di bianco sugli ipertoni del rumore, proprio come me la immaginavo. Vedo ancora Sakamoto suonare quelle otto battute, toccando sempre le stesse corde del pianoforte e muovendone sempre di diverse in me.
Sintonia.
Applausi.
Luci.
A presto, SakaNoto.