Blackfield Live 20/04/2011 @ Alpheus, Roma
Il soggiorno capitolino del duo anglo-israeliano avrà sicuramente destato reazioni opposte, come del resto da sempre vengono riservate alla loro opera, così densa ora di precisione barocca, ora di impeto genuino. Appena reduci dalla terza prova su lunga distanza Welcome to my DNA, i Blackfield devono subito adempiere al dovere morale di privarla dell'aura derivativa che la caratterizza in sede live, visto che il disco si presenta come un centone di idee già sentite, con un paio di picchi di ispirazione e molto materiale oggettivamente mediocre, in grado di suscitar devozione solo nei fanatici più ottusi.
La serata ha per sede l'Alpheus, venue romana di culto oramai per certe atmosfere, la cui acustica è però sempre un'incognita: ne fanno spese i North Atlantic Oscillation, ragazzotti d'apertura che propongono un prog-rock denso di tastiere vintage, ora maciullato dalla configurazione sonora che ne seppellisce la voce, ora da qualche sample lanciato fuori tempo. Al solito, apprezzamento per doversi smontare tutta l'attrezzatura da soli, come sempre accade per ogni gruppo spalla che si esibisce in questa location.
L'attesa per Wilson e Geffen sale, vengono incollate le scalette a terra e al solito c'è sempre qualcuno pronto a rovinarsi la serata cercando di carpirne il contenuto, privandosi di tutto il gusto per una sequenza che poteva rivelarsi davvero banale; dopo l'esordio con Blood, tratta dall'ultimo disco, era verosimile una pedissequa riproposizione dell'intero album, impressione subito fugata dalle note iniziali del loro brano eponimo, Blackfield: il pregiudizio si scioglie, il cuore si apre ed è pronto ad accogliere le melodie e le voci che tanta attesa avevano generato negli anni passati. Ben si tollera la parentesi attuale con Glass House, On the Plane e la minimale nonché (assai) opinabile Go to Hell. Primo apice della serata si ha con Pain, canzone il cui testo incarna perfettamente lo struggimento che il duo vuol trasmettere, e che riesce perfettamente in tale opera di comunicazione.
La mise di Steven è casual nonché priva di calzature come sempre, mentre Aviv si presenta in maniera quantomeno eccentrica, vestito con una giacca adorna di lunghe fila di led rossi accesi. Tempo di prender fiato con DNA, Rising of the Tide e Waving, unico brano forse davvero fresco e valido tra quelli più recenti, e si torna ai fasti di un tempo: Once miscela sapientemente energia e lirica, The Hole in Me e 1000 People sono ulteriore prova della loro intensità musicale. Ma è _Miss U _che si guadagna la palma di zenit a parer personale, creando empatia totale tra il pubblico e la voce piena e sincera di Aviv, via via con sempre meno indumenti addosso.
Ancora qualche prescindibile episodio di natura desossiribonucleica si avvicina al cospetto delle bellissime Epidemic, priva del prezioso controcanto femminile sulla coda, ahimé, e Where is my Love, ultimo brano questo prima del meritato encore, che prevede una terna mozzafiato composta da Hello, End of the World e dal manifesto It's Cloudy Now: oh sì, qui potete gridare we're the fucked up generation senza sembrare inopportuni.
Magari ecco, senza una maglietta nera a coprire il volto.