Massimo Volume [+BachiDaPietra] Live 2/12/2010 @ Circolo degli Artisti, Roma
Parliamoci chiaro: se i Massimo Volume fossero di lingua inglese, basterebbero ad annichilire senza problemi gran parte della scena post-rock internazionale, ed oltre. Per fortuna si esprimono in un idioma più profondo e ricco, e riescono perfettamente nella loro miscela di narrazione e musica, ottima in studio e straripante nella dimensione live.
La loro esibizione romana non ha fatto eccezione: del resto dall'introduzione a cura dei Bachi da Pietra si intuiva già sarebbe stata una serata all'insegna della musica di assoluta qualità; il duo Succi-Dorella, rispettivamente basso/voce e percussioni regge benissimo la scena, ed offre un sound in bilico tra blues, slowcore e stoner rock, complice un'acustica degna, un lusso per tanti gruppi spalla. I loro brani sono asciutti ed essenziali, ma non aridi: la sapienza timbrica di Succi fa coprire al proprio strumento numerosi ruoli, ben supportato dal contributo ritmico del collega.
La scena cambia e si fa più ricca, il palco è ora solcato dalle chitarre dello storico Egle Sommacal e del nuovo arrivato Stefano Pilia, dalla batteria di Vittoria Burattini e dal basso di Emidio Clementi, voce narrante pressoché unica nel panorama musicale italiano. Lo spettacolo è bipartito, e prevede nella prima parte l'esecuzione integrale dell'ultimo album Cattive Abitudini, pubblicato all'inizio dell'autunno dopo otto lunghi anni di inattività causa scioglimento; l'attesa è tanto grande quanto pienamente ripagata dalla performance del gruppo, il quale esegue con maestria i nuovi brani.
Emidio declama le proprie storie ruvide con voce altrettanto graffiante, confermando ancora una volta come la formula recitata sia la più vincente per esaltare la trama dei brani che la accolgono; Vittoria manovra le sue spazzole in maniera eccelsa, alternando ritmi spezzati a momenti delicati per piatti e cabasa, e le chitarre si alternano nei ruoli di gregario e solista. Il riff sostenuto di Robert Lowell sembra quasi post-hardcore, il tremolo di Coney Island è post-rock sopraffino; le liriche de Le nostre ore contate sono invece interpretate con piglio assai più deciso che nel disco, donando al brano una dimensione ulteriormente solenne, che sfocia nella rabbia di Litio. C'è tempo poi per la struggente storia de La bellezza violata e per l'esplosione sincopata di Fausto, fino all'epilogo affidato a Un mondo dopo il mondo.
Il gruppo lascia la scena, ma vi è coscienza dell'imminente ritorno per attingere al repertorio passato, motivo per il quale la maggior parte della platea ha gremito la sala: quest'ultima è presto accontentata dall'esecuzione di un trittico eccelso composto da Il Primo Dio, seguita da Il Tempo Scorre Lungo i Bordi e Fuoco Fatuo (da Lungo i Bordi), che lasciano il publico letteralmente basito al cospetto dello stato di grazia dei musicisti, che hanno conservato immacolato i sentimento dell'epoca in cui furono scritti tali brani e si sono confermati ancora realtà sopraffina nel rock d'autore. Non paghi, rientrano una seconda volta spinti dall'estremo calore della gente che mai vorrebbe terminare un'esperienza così profonda, e regalano il distico visionario Vedute dallo Spazio / Ororo (da Stanze), degno culmine di quello che si contende di diritto la palma di miglior evento musicale della stagione capitolina.
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