Anathema [+PetterCarlsen + Ocean] Live 12/11/2010 @ Alpheus, Roma
Nella città in cui per anatema si intende un bislacco provvedimento contro dissidenti da parte di buffi signori, i fratelli Cavanagh si riappropriano della definizione e dell'ellenica etimologia; Anathema è rock genuino, atmosferico e intenso, più semplicemente musica ottima eseguita da artisti tanto capaci quanto umili.
La serata prevede una corposa introduzione, affidata prima al brillante Petter Carlsen e poi ai tarantolati Ocean: il cantautore norvegese offre un ottimo set acustico e trova subito ottimo feeling con il pubblico, coinvolto dal medesimo nel sostenere la sua You Go Bird, mentre il collettivo tedesco travolge la platea con il proprio post-metal condito da atmosfere elettroniche ed orchestrali, queste ultime a dire il vero un po' sacrificate dalla dimensione live, che si è rivelata in ogni modo di livello ben più che degno.
Durante il riallestimento del palco [con grande collaborazione degli Ocean stessi, ndm], vengono predisposte a terra le scalette, prontamente fotografate e consultate dai rapaci avventori delle prime file: pur non avendole scrutate, vi è certezza che lo spettacolo sarà di massima intensità: salgono Daniel, Vicent e Jamie, con dietro [un po' troppo, ndm] Les Smith alle tastiere e John Douglas alle percussioni. Si parte senza mezzi termini con il quartetto iniziale di Judgement, che vede in testa un loro manifesto Deep; un passo indietro e si arriva ai tempi di Alternative 4, da cui sono estratte Empty e la struggente Lost Control. E' poi il momento di due brani idealmente gemelli nonché contigui nel disco di provenienza: si tratta di Balance e della geniale Closer, apice dell'intera prestazione di Vincent Cavanagh; la voce, pur sapientemente modulata dal vocoder controllato dal medesimo, risulta più piena e rabbiosa che in studio, ed è sostenuta dall'arrangiamento incalzante, che cresce senza mai esplodere, tenuto in vita dalla batteria sincopata e dall'ossessivo giro di tastiera.
Salutata la tastierina [ribattezzata tramite nastro adesivo da M-Audio in Maud - "Matilde" - sarà un caso? ;)], li raggiunge sul palco un elemento ben più degno, nella persona della sorella del batterista: Lee Douglas rende la simbiosi tra il pubblico e la band totale donando la sua voce alla bellissima A Natural Disaster, uno dei momenti più intimi di tutta la performance. Chiaroscuro totale rispetto al brano seguente, a sua volta picco estremo di energia: è la cavalcata inarrestabile di Judgement, per la quale è difficile non ricorrere al cliché dell'ineffabilità. I ragazzi di Liverpool spiazzano ancora proponendo uno dei loro lavori più dolci e delicati, Temporary Peace, seguito dagli echi mediterranei di Flying, con un minimo di sforzo non distanti dalle terzine quasi andaluse di un certo celebre brano di certi altri signori inglesi, aventi a che fare con alberi ed aculei: è proprio uno di loro ad aver supervisionato il bel disco nuovo, la cui esecuzione per intero è presto introdotta da Daniel, ponendo fine alla prima parte dello show.
We're Here Because We're Here di tautologico ha solo il titolo, perché è davvero un disco coinvolgente, profondo, cristallino [un po' troppo, rispetto alle versioni di alcuni suoi brani rilasciati precedentemente, ndm]: senza riportarne pedissequamente ogni dettaglio, spiccano la coda di Dreaming Light, con la quale Vicent costringe al silenzio ipnotico tutta la platea, l'intera Everything, che vede sposare perfettamente la voce di lui a quella della cantante, poi Angels Walk Among Us, dalle liriche intense e quasi laceranti, e Get Off, Get Out, sufficiente da sola a spazzar via le velleità di tanti emuli post-punk odierni.
Dopo la strumentale Hindsight a chiusura dell'album, Vincent annuncia gli ultimi due brani senza troppi complimenti: Daniel e la sua chitarra acustica guadagnano tutta la ribalta regalando Are You There? [dagli arrangiamenti di Hindisight>]: desiderio comune è che il suo arpeggio non abbia mai fine, e che la sua voce possa sempre sostenerlo nell'estensione immaginaria ed eterna dell'idillio così tessuto. Si torna ad organico completo con la pertinente One Last Goodbye, e si chiude con una piccola e gradita menzogna: c'è un terzo brano, travolgente e diretto come quello d'apertura - è la splendida Fragile Dreams.
Perché davanti ad un gruppo così sia ha solo il timore che l'incanto possa spezzarsi da un momento all'altro.