A Silver Mt. Zion Live 7/04/2010 @ Circolo degli Artisti, Roma
Un gruppo dalla produzione talmente sopraffina ed elaborata non avrebbe bisogno di presentazioni, ma vuoi per scelta propria, vuoi per il crudele meccanismo della ribalta mediatica, il collettivo canadese non gode della fama che meriterebbe. Egoisticamente si può aggiungere “per fortuna”, vista l’intimità che una platea più ristretta può garantire in sede di concerto, e così è stato ieri sera: locale gremito ma non affollato, la conquista delle prime file non ha richiesto particolari sacrifici d’orario.
Seconda tappa italiana per un totale di sei previste all’interno del loro tour europeo, gli A Silver Mt. Zion si accingono a mettere in scena brani provenienti sia dalla loro produzione passata, che dal loro ultimo lavoro, Kollaps Tradixionales (2010, Constellation Records): il disco declina educatamente la giustapposizione di qualsiasi etichetta, e si presenta come opera sincera e diretta, e lontana dagli austeri canoni del postrock esclusivamente strumentale, contenitore troppo comodo e troppo spesso abusato dalla critica per liquidare qualsiasi lavoro proveniente da quella vasta regione del paesaggio musicale idealmente sita tra i massivi strati sonori di Mogwai ed Explosions in the Sky, le liriche intense ed ariose dei Sigur Rós, il rumore dolce ed alienato di My Bloody Valentine e Slowdive, ed ovviamente gli echi oscuri e decadenti di Ian Curtis e Robert Smith. Brani che ad un’osservazione superficiale si presentano come troppo dilatati ed estesi, ma che risultano perfettamente coerenti se considerati come moderne opere sinfoniche, considerazione più che pertinente a giudicare dall’organico che compone il gruppo.
La formazione attuale, più volte rimaneggiata durante la decennale carriera del progetto nato come emanazione dei ben più che influenti Godspeed You! Black Emperor, vede sul palco un frizzante Efrim Menuck (chitarra, voce), accompagnato dalle violiniste Sophie Trudeau e Jessica Moss (sua compagna peraltro), dal contrabassista Thierry Amar e dal batterista David Payant, il loro acquisto più recente.
Menuck coi GY!BE vuole avere relativamente poco a che fare, come detto esplicitamente in una delle tante conversazioni tra lui ed il pubblico tenutesi nel corso della serata, ed il brano d’apertura conferma tale proposito: tempo di riconoscere l’inciso quasi punk-rock iniziale di I build myself a metal bird (seguita come nel disco da I fed my metal bird the wings of other metal birds) e si è già lontani, rapiti dalle due muse e dai loro archi, disposte ai lati di un ideale orchestra onirica, davvero difficile da ricondurre ai soli 5 strumentisti presenti sul palco. Ostinato per l’una, note tenute per l’altra, trame decise su percussioni vive ed effifaci e sostenute da un basso presente e mai invasivo, che difficilmente avranno risparmiato vibrazioni alla platea. Segue il lamento del dittico Black waters blowed / Engine broke blues, un’emanazione folk che sarebbe anche ordinaria, se non presentasse elementi neo-sinfonici ad aumentarne a dismisura il valore oggettivo.
La band è a proprio agio, Menuck scherza e dialoga con la platea senza però mai perdere occasione di far riflessioni acute e sensate - invettive contro il social networking, le politiche discografiche, governanti italici e canadesi, e anche contro certa sterile vis polemica nei confronti del “sistema”. Risponde anche a chi gli chiede l’ordine di grandezza dei propri proventi musicali, affermando di “potersi permettere il burro buono” e nulla più.
E’ tempo di God bless our dead marines, liriche intensissime ed una coda vocale intonata a canone da tutti i membri, apice emotivo assoluto di tutto il concerto, opinione confermata dal lunghissimo applauto tributato a fine esecuzione. Si torna all’ultimo disco con 'Piphany rambler, ancora sinfonia moderna per cuori ed archi, il cui crescendo finale si contende con la conclusione del tema precedente il titolo di massimo spannung della serata, a parer personale. Segue 1.000.000 died to make this sound, il cui inciso centrale, sostenuto ai limiti dell’ipnotico, genera massima simbiosi tra le cinque entità e le fila del pubblico, che davvero non riesce a contenere il disappunto alla rottura del lungo incantesimo tessuto finora al momento dello scioglimento dello stesso causa termine scaletta.
C’è quindi ancora tempo per un intenso encore affidato a There is a light, ultimo viaggio in terre lontane: un grazie dal profondo del cuore e dell’anima a Efrim, Thierry, Sophie, Jessica e David per averci fatto dono di momenti così preziosi, intimi e rari nel panorama musicale, talvolta troppo legato a categorie obsolete per poter godere appieno di opere inclassificabili come quelle degli A Silver Mt. Zion, da stanotte paradigma per chiunque voglia emozionarsi al cospetto di musicanti sinceri ed onesti, capaci ancora di comportamenti genuini come arrossire al cospetto di un fiore donato a fine serata :) .